Racconto del 20-01-2016

Credo che il momento peggiore sia stato quello della certezza. Dal primo giorno di ritardo fino a quando non decidi che é arrivato il momento di farti coraggio e correre a comprare il test, hai sempre in cuor tuo la speranza che ci sia un errore, sai che il ciclo puó saltare, che puó essere un periodo di stress ma quasi sempre c’é una voce dentro di te che insiste e quasi sempre ti rendi conto che ha ragione. Nel mio caso ancora di piú visto che sapevo che di aver rischiato piú di una volta.

Quando ho visto quella maledetta linetta rosa ho pianto anche se me lo aspettavo. Non avevo scuse o giustificazioni. Non ero una ragazzina ignorante o ingenua ma una ragazza di 22 anni, universitaria, fidanzata da due anni. Io e il mio fidanzato abbiamo fatto il test insieme, e insieme abbiamo pianto vedendo quella striscetta.

Peró fra tanti sentimenti e pensieri contrastanti, solo uno era ben presente in me. Non non voglio avere un figlio. Non lo voglio nemmeno adesso, che di anni ne ho 30.

Per molte é difficile prendere una decisione, troppo pesano l’opinione della gente, della famiglia, della cultuta cattolica. Credo che a tante, credenti o meno, venga in menta il pensiero che dice: “hai fatto lo sbaglio e adesso lo paghi”. Ma non é cosí. A tutte é concesso di sbagliare, non é un reato.

Quindi un secondo dopo la certezza del risultato la soluzione era giá chiara nella mia mente.

Non sono riuscita a tirar fuori le parole per dirlo a mia madre, l’ha fatto il mio ragazzo. Lei é una persona aperta, tollerante, mi ha cresciuta con le basi del femminismo anni ’70 ben piantate in testa. Non ce l’ho fatta perché sentivo di averla delusa.

Fortunatamente, una volta presa la decisione, il resto é stata un’esperienza positiva. Per quanto possa dirsi positiva una situazione del genere.

Nella cameretta dell’ospedale, pubblico, eravamo quattro donne, altre quattro nella camera accanto. Lí vedi e senti qualsiasi tipo di storia. Conosci la ragazza come te, accompagnata dal fidanzato, la madre che ha giá due bambini e non puó permettersi di allevarne un’altro, la donna accanto al tuo letto, che sta lí da sola, senza nessuno e quasi ti vergogni di avere intorno fidanzato, mamma e zia.

Le infermiere si sono prese molta cura di noi: non uno sguardo di rimprovero, non una mezza parola di giudizio. Tranquille, efficienti, sorridenti.

Poi tocca a te. Con il camice verde ti mettono sulla barella, con una coperta e ti portano in sala operatoria. 15, forse 20 minuti. Anestesia generale. Sento una voce che viene dal fondo della testa che mi sveglia. Poi mi trovo di nuovo in camera. Dormo ancora.

Cambia il turno delle infermiere e tutte vengono a salutarci. Passano da un letto a l’altro e ci baciano sulle guance. Quelle del nuovo turno ci portano the con i biscotti e la marmellata, perché siamo digiune dalla sera prima.

Nel pomeriggio si torna a casa. Qualche giorno di riposo per il corpo. La mente non so in quanto tempo riesce a guarire. Io sono sempre stata sicura della mia decisione ma so che per tante donne non é cosí semplice.

L’aborto non si raccomanda come fosse un’aspirina. É un’esperienza forte, a volte puó essere traumatica, ospedale, prelievi, aghi. Spesso in Italia devi affrontare anche il pregiudizio di chi ti sta intorno. É una decisione che va presa con criterio e seguendo unicamente quello che dice il cuore, senza farsi condizionare da niente e nessuno. Perché non si torna indietro. Purtroppo o per fortuna. Per questo io ho abortito. E non mi pento.