Il nostro intervento sul sex work per la mobilitazione con Non una di Meno del 16 dicembre e per raccontare la nostra azione notturna con striscioni sparsi per la città
Giovedì una donna colombiana trans e sex worker è stata accoltellata 4 volte al petto da un uomo che si è finto suo cliente per tentare di rapinarla.
Stringendoci a questa ennesima sorella colpita dalla violenza, ieri durante la giornata di mobilitazione di Non Una Di Meno ci abbiamo tenuto a ribadire che la violenza che colpisce le sex worker è violenza di genere: che gli uomini, i compagni, i clienti, gli sbirri agiscono sulle sex worker la stessa violenza patriarcale che colpisce tutte noi, quella violenza patriarcale che, nonostante ci divida in sante e puttane, ci ammazza al ritmo di almeno una ogni tre giorni nello stesso modo.
Anzi, le sex worker le ammazza con più facilità, nel silenzio e nell’indifferenza generalizzata, perché sono relegate ai margini da leggi che invece che assicurare loro i diritti le criminalizzano, perché sono invisibilizzate dalle ordinanze dei sindaci che invece che tutelarle le spingono sempre più in periferia, lontane dallo spazio pubblico, in nome del decoro urbano e
delle città vetrina.
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ritte non con loro ma sulla loro pelle da sedicenti salvatrici bianche, come la senatrice 5 stelle Maiorino che, mentre veniva invitata a parlare di tutela dei diritti LGBT al pride di Milano, metteva in pericolo le lavoratrici sessuali e stigmatizzava le donne trans in un disegno di legge basato sul modello neo-abolizonista. Un modello diffuso nel Nord Europa che, criminalizzando il cliente, obbliga le sex worker a contrattare le prestazioni in luoghi sempre più nascosti e sempre più velocemente. Un modello che riduce sempre più gli strumenti di mutuo-aiuto a loro disposizione, come la possibilità di associarsi o di condividere gli appartamenti. Un modello che, elevando gli sbirri a salvatori, permette loro di abusare della posizione di potere che hanno. Le sex worker svedesi raccontano di un aumento degli sfratti, degli episodi di profilazione etnica, delle espulsioni delle lavoratrici migranti che si rivolgono alla polizia per chiedere supporto.
Vittimizzazione, paternalismo, invisibilizzazione e stigma sono gli ingredienti che animano il dibattito politico e la narrazione mediatica riguardo a questo tema. Dibattito in cui le voci delle dirette interessate sono invece sistematicamente silenziate, in cui la loro autodeterminazione non viene mai riconosciuta, in cui sono tutte considerate vittime da salvare dalle buone donne samaritane cattoliche figlie della cultura patriarcale.
Ieri, come ci hanno chiesto le compagne sex worker Ombre Rosse, ci siamo invece fatte megafono di queste voci e abbiamo urlato forte che pretendiamo che, superando la divisione dicotomica tra chi lo fa per scelta e chi lo fa per costrizione, il lavoro sessuale sia considerato un lavoro, e che le lavoratrici sessuali accedano a tutte le forme di tutela e di welfare previste dal diritto del lavoro.
Vogliamo che la lotta femminista non lasci indietro nessuna, tantomeno le sex worker. La loro è una lotta profondamente intersezionale perché nominare donne, persone trans, razzializzate, disabili, povere, vecchie o senza dimora significa nominare identità che si intrecciano profondamente al lavoro sessuale creando oppressioni multiple che espongono ancora di più alla violenza di genere, al razzismo, all’abilismo, all’omobilesbotransfobia, all’ageismo.
Vogliamo la fine di ogni stigma e della puttanofobia, per permettere alle compagne sex worker di potersi esporre sia per denunciare le violenze di genere che subiscono che per avanzare in prima persona le proprie istanze in ogni contesto pubblico. Ancora oggi infatti ammettere di fare sex work espone le persone a discriminazioni perpetrate dalle proprie famiglie e dalla propria rete sociale, al rischio di licenziamento e alla difficoltà ad accedere ad altri tipi di lavoro.
Vogliamo canali regolari di accesso per le persone migranti per combattere la tratta per sfruttamento sessuale e contemporaneamente permessi di soggiorno per lavoro per tutelare e regolarizzare le persone migranti lavoratrici sessuali.
Vogliamo libertà di associazione tra sex worker, perché si possa lavorare in luoghi sicuri, con persone pronte a intervenire e a supportare in caso di problemi con i clienti, perché si possano formare reti di supporto che sono fondamentali per le sex worker come ha dimostrato la raccolta fondi “Nessuna da sola” lanciata ad aprile 2020 in piena pandemia per sostenere le lavoratrici escluse dalle prestazioni sociali istituite come misure di emergenza dal governo.
Vogliamo la decriminalizzazione del lavoro sessuale e l’abolizione del modello nordico.
Vogliamo case e reddito per tutte per porre rimedio alla povertà e alla precarietà.
Vogliamo che la violenza di genere, la violenza istituzionale, la violenza razzista, classista, omobilesbotransfobica, abilista, la violenza del capitalismo e quella dei confini finiscano e che finiscano adesso.
Vogliamo che il 17 dicembre, la giornata contro la violenza sulle sex worker (istituita nel 2003 da una compagna sex worker, Annie Sprinkler, che proprio in tale data organizzò a Seattle una veglia in memoria delle almeno 48 sex worker uccise dal serial killer Gary Ridgway) diventi una giornata fondamentale di lotta per il movimento transfemminista e per ogni altro gruppo si definisca compagno.