Racconto del 15-02-2016 ore 20.09

Era il 2002, avevo 20 o 21 anni, forse era il 2003. Ero fuggita da casa a 18 anni e rifugiata a Londra. Lì, mi sono buttata tra le braccia di un uomo per cui avrei stravolto la terra. Ho lottato con la mia famiglia per poter stare con lui, ho passato cose incredibili con lui. Ma non incredibili nel senso di meravigliose, incredibili che se ci penso mi viene da rabbrividire. Avevo perso la testa, o forse era il primo che mi considerava importante. Non l’avevo persa del tutto la testa, però. Il senso della giustizia, di salvaguardia, lo spirito di sopravvivenza, era sempre vigile. Era quello che mi ha fatto sopravvivere ad una adolescenza a dir poco turbolenta, ad una famiglia a pezzi; quello che mi ha fatto partire e allontanarmi dal veleno che mi stava soffocando. Quello era lì, a sostenermi. E quando ho scoperto di essere incinta è riemerso e mi ha scossa. Aspettavo un* bambin* da un uomo alcolista, senza documenti per rimanere nel paese, e violento. Il mio carattere mi ha detto di salvaguardarmi, di non continuare la gravidanza. Urlava da dentro e mi diceva di abortire senza mai ripensarci. Mi sentivo crescere dentro un essere che non volevo, un parassita che assorbiva la mia vita. Ho parlato con la mia famiglia. Mi avrebbero sostenuto in caso l’avessi voluto. Ma non lo volevo.

Durante le visite pre aborto mi hanno fatto sentire il cuore, ma ero convinta di quello che facevo. Sono tornata a casa da lui e gliel’ho comunicato. “Tra due settimane ho l’appuntamento per l’aborto”. Lui non ne voleva sapere, voleva quel* bambin* con tutto sé stesso. Nonostante non avessimo soldi, non avesse documenti, fosse un alcolizzato violento. Quella notte mi ha violentata, non mi ricordo un gran che, solo il terrore. Il giorno dopo mi ha picchiata dicendomi: “tu non uscirai viva da questa casa”. Questo non ha fatto altro che confermarmi quello che già sapevo: abortire era la mia unica salvezza. Lui quella notte è finito in prigione. Non l’ho mai più visto, nemmeno al processo.

Il giorno del mio appuntamento in ospedale ero lì, pronta, puntuale. Ero a digiuno dalla mezzanotte del giorno prima ed erano quasi le due del pomeriggio. Avevo fame. Ero in una stanza con altre donne, tutte con aria triste. Io ero felice di essere lì, non si chiudeva un capitolo, ma si riapriva la mia vita. Mi sarei riappropriata della mia vita. Quando mi hanno chiamata ero pronta, era la mia prima anestesia totale. Il mio terrore era che contare fino a dieci non bastasse per far entrare in circolo l’anestesia. Invece mi sono addormentata e risvegliata nel giro di venti minuti. Velocissimo. Non pensavo fosse così veloce. Nessun dolore. E ho cominciato a ridere. Ridevo, sorridevo, ero felice. Mi hanno portato un panino, finalmente, e potevo mangiare. Le infermiere continuavano a chiedermi se stessi bene e io ripetevo che non ero mai stata meglio. Ero felice. Era finita.

Anni dopo sono entrata in psicanalisi, non per questo motivo, ma per smettere di scappare. In quel periodo facevo sogni paurosi, allucinanti, spaventosi. Ho sognato un bambino di circa sei anni che veniva verso di me e io sapevo che era il bambino che avevo abortito. È stata l’unica volta che ho pensato “avrò fatto bene?”, ma è passata subito. Non mi sono mai pentita. Mai. Nemmeno una volta. Che vita avrei potuto offrire? Che cosa potevo insegnare? Niente. Ho fatto la cosa giusta, per lui/lei ma soprattutto per me. Il fatto di non essermene mai pentita, nemmeno quando mio fratello mi ha detto cose velenose, ha contribuito all’attuale scelta di non avere figli. Adesso ho 34 anni e non avrò figli. E non me ne pento.

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