Racconto 15-02-2016 ore 18.59

Io e Carlo stiamo fumando una sigaretta sul balcone di casa sua. Usciamo da poco più di un mese e mi piace molto parlare con lui. “E dell’aborto cosa pensi?”, mi chiede. “Sarai sicuramente favorevole al fatto che debba essere legale, ma penso che a livello personale potresti non farla così semplice”. “Invece no. Non ho c’è nessuna scissione tra la mia posizione politica e la mia posizione personale”, rispondo. “Ah, non me lo aspettavo, visto che sei una persona così sensibile. Anche io sono favorevole alla legalità dell’aborto, ma penso che per una donna sia un trauma molto forte”.

No, Carlo, non è per forza così. Provo a spiegargli che il modo migliore per far sentire una donna in colpa è continuare a dirle che si sentirà in colpa per quello che sta facendo, che non è detto che tutte le persone provino le stesse sensazioni, e che, soprattutto, ogni storia è diversa dall’altra. Lui mi ascolta attentamente, ma non mi sembra del tutto convinto. Il mito dell’ “abortirai e ti sentirai una merda per anni” è duro a morire anche per le persone più emancipate e mentalmente aperte.

Eppure io ho abortito e non mi sono pentita mai, neanche per un istante. Non penso ogni giorno all’aspetto che avrebbe mi* figli*, non sono turbata quando vedo dei bambini per strada, non ricordo neanche più il giorno in cui c’è stato l’intervento. Io e l’altra persona coinvolta nel fattaccio uscivamo insieme da un paio di mesi. Un preservativo messo male, un ritardo sospetto e troppo prolungato, il test, la consapevolezza, la decisione. Queste ultime tre cose tutte avvenute nell’arco di circa 20 minuti. Prima di trovarmi nella situazione di avere una gravidanza indesiderata ho sempre pensato che, se mi fosse successo, non avrei avuto troppi problemi ad abortire. E sono molto fiera di me per essere rimasta fedele alla mia idea.

Della mia gravidanza ricordo il seno gonfio, le lievi nausee che d’improvviso alcuni odori mi causavano, l’affaticamento incontrollabile e frequente. Non vedevo l’ora che finisse. Non sentivo alcun attaccamento per le cellule che stavano crescendo dentro di me. Perché, appunto, per me erano solo quello: cellule. Materiale genetico che cresce nel corpo di una ragazza di 22 anni. Non un bambino che si sviluppa nell’utero di una futura madre.

Sono stata relativamente fortunata: non ho incontrato medici obiettori e sono stati tutti molto professionali, alcuni persino gentili. Tranne una persona. Un’infermiera che mi ha letteralmente pugnalata con la siringa del prelievo. Mi ha cacciato l’ago nella vena come se dovesse spaccare la legna per il fuoco, guardandomi con tale severità e biasimo da non farmi dubitare neanche per un secondo che fosse semplicemente maldestra. Grazie a lei ho avuto due enormi lividi giallo-bluastri sulle braccia per settimane, cosa che non mi era mai successa prima. La sua violenza è stata tale che, durante l’intervento, mi hanno dovuto attaccare la flebo sulla mano perché le vene del braccio non si vedevano più. Di una sola cosa mi pento, per quanto riguarda il mio aborto: di non aver urlato a quell’infermiera faccia-di-merda che, per quanto grande fosse il suo disprezzo per me e per quello che stavo facendo, il mio nei suo confronti era di alm eno un ordine di grandezza superiore.

Se continueremo a frequentarci, Carlo, un giorno forse ti racconterò questa storia. Sperando che le mie parole basteranno a convincerti del fatto che sì, si può abortire ed essere serene per quello che si è fatto. Ma per molte donne questo sarà più difficile, finché tutti ci continueranno a ripetere il contrario.

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