Racconto del 2-12-2015

La potenza dell’aborto (Roberta)

La potenza dell’aborto.

A più di un anno da quest’esperienza, dopo aver chiuso cerchi, dopo averne parlato e riparlato con quasi tutte le persone con cui volevo farlo, penso di poterne scrivere.
Scriverò con la lingua della pancia, con quella del cuore, con la lingua materna, le espressioni sentite e conosciute perché raccontarla in un’altra lingua sarebbe tradurre e quindi un po’ tradirmi.

In questi giorni, mesi ed anni, dove tanto da un lato dell’oceano come dall’altro, l’autodeterminazione è sotto attacco e tocca rivendicarsela quotidianamente mi sono sorte alcune riflessioni:

L’aborto volontario è potente,
è stata una riappropriazione del mio corpo e del mio spazio dopo averlo perso di vista,
non per molto,
ma il tempo sufficiente per perdere il controllo del mio desiderio.

L’aborto è l’emblema del desiderio,
è il desiderio che torna più forte e più potente di prima,
più consapevole e più deciso.

L’aborto è il riposizionamento dei propri limiti,
è ripensare alla propria autodeterminazione,
a dove ‘finisci tu e comincio io’.

L’aborto non è ‘il male minore’,
è una scelta consapevole,
autodeterminata,
libera,
felice.
Per me lo è stata.

E’ indescrivibile la consapevolezza che lascia scritta nella carne.
L’aborto lo senti e lo condividi.
Dell’aborto ne parlo, appoggio ed accompagno altre decisioni come la mia e le rivendico.

Ho abortito ad agosto 2014, in Messico, a Città del Messico, l’unica entità federale dove l’interruzione volontaria di gravidanza è legale.
Ci sono cliniche pubbliche e private che lo fanno, ho deciso di affidarmi alla sanità pubblica messicana nonostante io sia bianca, nonostante io sia europea. Nel 2007 ho seguito il processo politico di depenalizzazione dell’aborto, ne ho scritto, ne ho studiato, sarebbe stato ipocrita e classista rifugiarsi nella clinica privata.
Solo 15 donne al giorno possono abortire in una delle 6 cliniche pubbliche. Il Distrito Federal ha all’incirca 25 milioni di abitanti, abortire è ancora una questione di privilegio, accedere all’informazione, raggiungere la clinica non sono questioni secondarie.
Chi arriva prima accede, come ovunque qui, non ci sono prenotazioni, la sorte, il destino, il fluttuare degli eventi, la vita e la morte ti toccano o no, dipende.
Non dedicherò nessuna riflessione alla persona che ha collaborato alla produzione del feto, se non semplicemente dicendo che da bravo macho ha seguito esattamente il suo ruolo, disfandosi del problema, allontanandosi da ogni responsabilità e rinfacciandomi di essere stata aggressiva. L’aborto l’ho sempre considerata una questione mia e forse è vero, lui non è mai stato nemmeno preso in considerazione e non me ne pento.

Martedì 29 luglio 2014
Paura. Mi accompagna da venerdì (quando ho scoperto di essere incinta) ma oggi è il sentimento più forte che mi toglie forse un po’ di lucidità. Ci svegliamo alle quattro per andare in clinica, sono talmente agitata che mi manca il respiro, per fortuna non sono sola: non smetterò mai di ringraziare Giulia, Tania e Octavio per l’appoggio incondizionato di quel giorno e Monica per le attenzioni del pre e del post.
Fuori l’aria della notte avvolge ancora le strade di Città del Messico, la clinica è lontana e oggettivamente, da sola, non ce l’avrei mai fatta.
Arrivarci è difficile persino per gente nata e cresciuta qui. In auto, nel buio e nel freddo del momento che precede l’alba andiamo verso questo luogo sconosciuto, nel mezzo di una delle zone più marginali e marginate di Città del Messico, Iztapalapa. La clinica è immersa tra piccole case, strade sconnesse e auto da rottamare, all’orizzonte quasi si percepisce la fine della città.
Alle cinque della mattina c’è solo un’altra ragazza in fila prima di me, accompagnata di genitori.
Le due ore che mi aspettano prima di entrare le passiamo a giocare a “Nomi, cose, animali” per distrarci dal freddo umido che ti entra nelle ossa.
A poco a poco arrivano sempre più persone e si accodano, è una corsa a chi arriva prima, per forza.
Mi dicono che avrò finito verso le tredici quindi i miei amici tornano a casa e io rimango li, nel mezzo di un posto che non conosco, affidandomi a tutte quelle donne che sono con me, come me, e affidandomi metaforicamente anche a tutte quelle che hanno fortemente lottato e voluto un posto come questo effettivamente libero e gratuito.
Dopo tutti gli esami di routine rimaniamo ad aspettare l’ecografia. Arriva il mio turno e si, sono incinta, due dottoresse e un ecografo mi dicono che sono di 5.6 settimane, i conti non tornano ma so che all’inizio non si è mai precisi.
Mi vengono consegnate otto pastiglie di mifepristol e a tutte, tutte insieme e poi separatamente, ci viene spiegato come usarle. Ognuna lo farà da sola, a casa. Speravo di no, speravo di poter essere accudita almeno in una prima fase ma le distanze a Città del Messico sono talmente grandi che può darsi che inizi il processo abortivo tra la prima e la seconda fase e magari non si è fatto in tempo a tornare a casa.
Penso alla solitudine della medicalizzazione, al non accudimento di questa professione in questo caso, molto probabilmente se si sceglie ginecologia e ostetricia lo si fa anche per accudire ma in questa routine si diventa nient’altro che una somministratrice di agenti chimici dai nomi quasi impronunciabili. Il processo è talmente rapido e meccanico che non c’è tempo per l’empatia, siamo molte, è un lavoro meccanico, hasta luego güera (wera) en dos semanas vas a regresar para el control.
All’uscita con alcune donne si parla delle proprie storie personali, del perché si è deciso di abortire.
La sensazione è quella di aver trovato più comprensione tra le donne messicane di quella che forse avrei trovato tra le donne delle mie terre. Il gioco tra la vita e la morte qui è talmente frequente che nessuna si è chiesta perché ero li con loro, sono solo la güera (wera, la bianca). Come dice Galeano in America Latina si fa l’amore e i bambini nascono di conseguenza, si muore con altrettanta facilità con la quale si viene al mondo, le vicissitudini della vita sono le più precarie e le meno lineari che io abbia mai incontrato. Un giorno vuoi un figlio il giorno dopo non lo vuoi più, quattro sono troppi, non sai chi sia il padre, ancora non è il momento. Le donne abortiscono da sempre. E’ normale, è tutto molto normale, le deviazioni dal percorso sono già previste e calcolate, come quando piove. La pioggia arriva sempre, quotidianamente, non la si può fermare e si convive con essa, si arriva in ritardo, si aspetta che finisca, no pasa nada, va così. Non ci si agita troppo, si imparano i tempi degli imprevisti.

Tornata a casa prendo le prime quattro pastiglie e dopo quattro ore le altre quattro pastiglie, il processo inizia, sembra una mestruazione più forte e un pochetto più dolorosa. Mi accoccolo nel letto, piango un po’ e ascolto musica fino ad addormentarmi.

Martedì 12 Agosto 2014
Non ha funzionato. Le otto pillole di mifepristol non hanno funzionato. Señorita usted sigue con su embarazo. Ahora son 6.1 semanas.No. No. No. Perché? Sono troppo agitata per chiedere spiegazioni ma quella che mi viene data è che forse l’assunzione delle pastiglie è avvenuta in modo sbagliato. Mi viene da vomitare e mi sento svenire. Mi ridanno le otto pastiglie di mifepristol, se nemmeno sta volta funzionassero dovrò accedere all’aspirazione. Torno a casa e tutto ricomincia.

Martedì 19 Agosto 2014
Questa volta ha funzionato. Lo so perché ho visto il prodotto dell’aborto, l’ho avuto tra le mani. Non mi ha sconvolto eccessivamente, non credevo fosse cosi, ma mi ha dato la certezza di stare abortendo. Le mediche della clinica mi hanno confermato che si, il processo era andato a buon fine.
Come accennavo prima, questo è stato uno dei giorni più felici della mia vita. Mi sono sentita potente, mi sono sentita guerriera, mi sono sentita leggera, mi sono sentita di poter affrontare altre mille battaglie perché questa l’avevo vinta, con successo, da sola.

Ho ascoltato i racconti di tante amiche, donne, compagne ma per fortuna non ho mai detto “a me non succederà mai” ogni racconto è sempre stato un momento di riflessione per chiedermi “ed io cosa avrei fatto?”. La risposta è sempre stata molto semplice e lineare: per me un* figli* deve essere un progetto, deve essere cercat* e volut*.
Quindi ringrazio tutte quelle donne o persone socializzate come tali che attraverso il loro corpo, i loro racconti e le loro confidenze mi hanno invitato e quasi obbligato a rifletterci in maniera urgente (perché poi quando ti capita non hai molto tempo per riflettere).

Ho recuperato il mio corpo ed il mio spazio d autodeterminazione. Ho sentito le lotte e le rivendicazioni femministe incarnate e vive nella mia esperienza.
L’aborto non è un diritto, l’aborto è una pratica (oggi soprattutto medicalizzata) di cui semplicemente dobbiamo riappropriarci.

Informazioni su mujereslibresbo

collettivo di donne per le donne
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