Racconto del 27-10-2017 ore 14:59

Sull’aborto mio
Dalla notte del nostro primo bacio ero stata per lui un voluttuoso giocattolo, un’amante, una compagna umile che non chiede di esser mostrata, ma si lascia celare. Nella calda primavera di un anno e mezzo dopo il mio amore fioriva maturo e rigoglioso. Avevo solo da dare. Diciassettenne, giovane e innamorata. Gli avevo sempre detto di sì. Del sesso, lui conosceva e io ignoravo, così credevo. Fin dalla prima notte gli avevo detto di sì, senza mai mettere in discussione il modo, il luogo, il tempo.
Conosci il pericolo, a diciassette anni? Lo temi? Io ero una ragazzina coraggiosa. Ero una ragazza imprudente. Amavo e non vedevo pericolo nel mio amore. Il mio corpo era un suo strumento, ero creta nelle sue mani. Amavo, non conoscevo altra gioia. Credo che anche lui mi amasse, a suo modo, dopotutto. In qualche modo, da qualche parte anche in lui si annidava amore.  Lo penso perché nemmeno lui conosceva paura. Eppure quando i dubbi arrivarono, fui io a non dar loro alcun credito.
Era cresciuto in un paese. Suo padre era morto di overdose quando lui era bambino. A scuola le maestre gli dicevano: brutta razza, la tua. Non combinerai mai niente. Lui ci credette.
Ora si drogava anche lui, si imbottiva tutti i fine settimana di qualunque graziosa pilloletta colorata fosse in grado di agguantare con le sue belle mani. E quando era stanco del viaggio, si sporcava il naso di bianco e credeva di riprendere fiato.
Lo amavo e mi dicevo: sarò io a salvarlo.
La primavera quell’anno fu calda e assolata. A notte fonda facevamo l’amore su ogni belvedere, arrampicandoci sulle terrazze dei ricchi, scopavamo sotto le stelle, credo che nessuno mi abbia più scopata così.
Era giovane anche lui, ma per la maggior parte del tempo non era più lucido né consapevole. Seppe dirlo solo dopo: abbiamo rischiato. A me nessuno aveva mai detto che per quanto ami un’altra persona le regole dell’amor proprio non possono mai essere infrante. Ma credo avrebbero dovuto insegnarmelo quand’ero piccola, quando scoprii il piacere in primo liceo, che il sesso si fa solo col preservativo, per una serie infinita di ragioni.
Nessuno lo fece e a diciassette anni rimasi incinta. Trenta giorni dopo il test di gravidanza abortii. Non ebbi dubbi. Nel mio utero non cresceva un bambino, ma un sasso, una scatola di pietra: conteneva tutte le graziose pillole che il mio non fidanzato aveva ingerito negli ultimi sei mesi, e tutti i preservativi che in tre anni avevo rinunciato ad usare; le parole cattive di maestre elementari che in realtà raccontavano quanto potere abbia la scuola in un piccolo paese. Celati da un coperchio di pietra, nel mio utero crescevano solo sogni infranti: avrei rinunciato al diploma, all’università, ai viaggi, ad anni ancora di giovinezza, spensieratezza. Non ebbi alcun dubbio, nemmeno per un istante: quel nauseante contenitore doveva sparire – e sparì.
Questo non vuol dire che non ci fu dolore, che medici e assistenti sociali non furono capaci di umiliarmi, che non soffrii e piansi. Ancora oggi, a cinque anni di distanza, non sono riuscita a tornare nel piccolo paese dove lui, credo, vive ancora. Non l’ho mai più visto, non gli ho mai più rivolto la parola. Fu lui a sparire, poche settimane prima dell’operazione, e quando mesi dopo provò a tornare avevo cominciato a capire che erano stati i miei sì a ferirmi. Allora stetti zitta e sperai che capisse anche lui. Ero arrabbiata, ho odiato lui e me stessa molto più di quanto potesse avere senso – non ha mai avuto alcun senso.
Oggi so che fummo vittime. Nonostante le nostre responsabilità, fummo vittime. Sono stata vittima. Rinunciai all’amore più puro che abbia mai provato. Rinunciai a forsennate, grandiose scopate, a promesse d’eternità. Con la scatola di pietra abortii anche qualcosa che somigliava ad amore e innocenza.
E lo rifarei altre mille volte.